Il disumano Steve Jobs (Luca Sofri)| Il Post

L’arroganza e l’insensibilità sono i tratti principali del suo carattere raccontati nella biografia uscita in tutto il mondo.

Le biografie di personaggi famosi e ammirati di solito ricadono in due diverse categorie: quelle “ufficiali” e “autorizzate” molto agiografiche in cui la grandezza del personaggio è confermata ed esaltata, pur con le umane ombre, e quelle indipendenti che contraddicono l’agiografia evidenziando tratti negativi e riprovevoli del rappresentato, a volte per amor di verità, a volte per amor di anticonformismo e pubblicità.

La biografia di Steve Jobs scritta dal giornalista Walter Isaacson e uscita ieri in tutto il mondo, un mese dopo la morte di Jobs, è un raro caso di biografia autorizzata (promossa, anzi) dal protagonista e dalla sua famiglia, in cui del carattere del protagonista prevalgono gli aspetti criticabili e sgradevoli. Isaacson spiega subito che fu lo stesso Jobs a insistere ripetutamente perché se ne occupasse, e a garantirgli totale libertà e nessuna interferenza sulla raccolta delle storie e delle testimonianze e sulla loro scrittura. E identiche assicurazioni Isaacson ebbe dalla moglie di Jobs, Laurene. Dopo la morte di Jobs, poi, Isaacson ha raccontato che la volontà di Jobs era stata di lasciare il racconto della sua vita per i suoi figli, che aveva spesso trascurato per il suo lavoro.
Ma la lettura che i giovani Jobs si troveranno di fronte non sarà facilissima da digerire, sempre che non siano già preparatissimi a un racconto così spietato del carattere di loro padre.

Il libro è infatti una insistente descrizione dei ripetuti egoismi, infantilismi, arroganze, insensibilità di Jobs, alternata a una celebrazione della grandezza straordinaria delle sue intuizioni, della sua volontà e dell’impresa rivoluzionaria che ha costruito. In oltre seicento pagine di efficace e attenta divulgazione delle successive scelte tecnologiche ma soprattutto di scontri umani, tensioni, drammi, caratteri, e amicizie infrante e rivalità acerrime (e i protagonisti si mettono a piangere un sacco, nei momenti più tesi e drammatici, malgrado siano ormai uomini fatti). Due grandi filoni tornano: Jobs era un uomo che pensava che le regole non lo riguardassero, e che praticava una “distorsione della realtà” per ingannare se stesso e gli altri.

Le molte testimonianze raccolte da Isaacson hanno un tratto comune: praticamente tutte raccontano cose umanamente orribili di Jobs e dei suoi atteggiamenti con gli altri, anche con le persone più care e leali. Prima o poi, ha deluso o tradito quasi tutti: la differenza è tra chi reagisce dicendo “Steve è fatto così” e chi non gliela perdona. La sua ex fidanzata a cui Jobs è rimasto più affezionato dice di aver letto “in un manuale di psichiatria del disordine da personalità narcisistica e capì che Jobs rientrava perfettamente nella descrizione che ne era fatta”. E se c’è una cosa che manca, nel ricco libro di Isaacson, è un vero confronto con Jobs stesso su questo tema: Isaacson ha avuto con lui molte conversazioni, spiega, ma nel libro le testimonianze del protagonista sono una parte relativamente esigua e sembra che Isaacson non voglia privilegiarle troppo rispetto a quelle di tutti gli altri interpellati. Solo nel finale del libro ci sono tre pagine e mezza di una sorta di “dichiarazioni finali” in cui Jobs riconduce le sue durezze con gli altri a “essere schietto” e “dire le cose in faccia”.

Finisce che il lettore anche più solidamente certo della sua fedeltà alla grandezza Apple non può non riconoscere persino che in tutti i violenti e aspri scontri dialettici tra Jobs e Bill Gates, quello più lucido e misurato suona essere Bill Gates, malgrado di fatto il vincitore in termini di innovazione e genio sia Jobs. E – lo scrivo sul mio meraviglioso tredicesimo Mac in oltre vent’anni – non è una cosa che mi sarei aspettato mi capitasse mai di pensare.